Due grandi della danza al teatro Ponchielli di Cremona: Saburo Teshigwara e Rihoko Sato. Palcoscenico vuoto, e fondale nero. Solo le luci animano la scena. E quando lui è solo al centro un gruppo di fari lo illumina dall’alto. Shakespeare ci racconta che Ophelia muore lasciandosi cadere in acqua e il quadro del pittore preraffaellita John Everett Millais, realizzato a metà 800, ce la mostra mentre scivola nell’acqua di un rivo fra sponde lussureggianti di fiori ed erba.
Niente di tutto ciò nella visione depurata e scarna di Teshigawara. Il grande artista giapponese di 71 anni, Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia del 22.
Niente folklore orientale. A partire dalla scelta delle musiche: Nino Rota, Alban Berg, Wolfgang Rhim, Claude Debussy.
Saburo è uno sciamano, un extraterrestre, un folletto. Le definizioni di sprecano. Danzatore che ipnotizza per la sua tecnica strabiliante, per la velocità delle sue braccia, per la fluidità del suo corpo che pare privo di ossatura. Che conquista per il fascino dei suoi allestimenti di cui cura coreografia, regia, per lo splendore delle sue luci, per i costumi semplici e scuri.
E’ giapponese, ma sarebbe riduttivo definire il suo stile post-butoh, anche se della danza contemporanea giapponese conserva tutta l’intensità, lo straordinario impatto, la capacità di lanciare grida nel silenzio con la semplice forza della mimica. Teshigawara, piuttosto, si pone nel punto di incontro fra Oriente e Occidente; o, meglio, non appartiene a nessuna area precisa, perché il suo corpo, ancora agilissimo, mescola ogni influenza, mixa qualsiasi tendenza. E’ un corpo sapiente che conserva la memoria di tutta la danza di fine 900.
Saburo porta in scena un modo di fare spettacolo totalmente contemporaneo, eppure nella semplicità pura, nell’eleganza raffinata profondamente fedele a un certo modo di intendere il Giappone tradizionale, completamente diverso dal butoh, la danza contemporanea giapponese che abbiamo conosciuto nei decenni passati e di cui Ushio Amagatsu , scomparso di recente, con il suo gruppo Sankai Juku , è stato un esponente di primo piano.
C’è un filo drammaturgico sottile, poetico, quasi impalpabile in “Ophelia”. E poi la scelta di porre Rihoko Sato al centro dello spettacolo è un ulteriore omaggio alla sua compagna artistica , musa ispiratrice , figura centrale dell’universo artistico del coreografo.
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