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Tra spie e intrighi, quei quadri "bottino di guerra"

Tempo di lettura: 4 minuti

Ultimo aggiornamento 23 Aprile, 2024, 21:48:37 di Maurizio Barra

(di Enzo Quaratino)
TOMMASO ROMANIN E VINCENZO SINAPI,
“BOTTINO DI GUERRA” (MURSIA EDITORE, 295 PAGINE, 18 EURO).

   
Una truffa transnazionale di quadri d’autore acquistati dai
nazisti quasi tutti a Firenze, passati illegalmente per la
Germania e infine finiti a Belgrado, dove tuttora si trovano,
senza che l’Italia sia finora riuscita ad averli in
restituzione: un raggiro in grande stile, dunque, i cui dettagli
sono raccontati, con i caratteri propri dell’inchiesta
giornalistica, nel libro appena uscito “Bottino di guerra”
(Mursia editore, 295 pagine, 18 euro), di Tommaso Romanin e
Vincenzo Sinapi, entrambi cronisti dell’ANSA.

   
I quadri al centro della contesa non sarebbero otto, come si
è ritenuto finora, ma – secondo i due giornalisti – più del
doppio: sarebbero infatti 17, se non addirittura 19, risalenti
al XIV, XV e XVI secolo. La storia comincia quando Germania e
Italia erano amiche, e alcuni nazisti innamorati di arte
acquistarono una serie di dipinti in prevalenza a Firenze. I
quadri sarebbero poi stati illegalmente esportati in Germania,
soffiati sotto il naso dei Monuments men a Berlino da un
faccendiere croato e infine incamerati dal Museo nazionale
serbo, a Belgrado, dove tuttora si trovano. I carabinieri della
Tutela patrimonio culturale ne hanno individuati appunto otto e
la magistratura di Bologna ne ha chiesto per anni, inutilmente,
la confisca.

   
La truffa viene preparata per mesi e si consuma in due giorni,
il 2 e il 10 giugno 1949, quando 50 quadri, otto icone e una
gran quantità di oggetti antichi e preziosi – tappeti, arazzi,
candelabri, monete – in tutto 166 articoli, lasciano per sempre
il palazzone di Monaco di Baviera dove gli Alleati avevano
stipato l’arte saccheggiata dai nazisti nei Paesi occupati. Ante
Topic Mimara, mezza spia e mezzo imbroglione, si presenta al
Central collecting point come “Rappresentante jugoslavo per le
restituzioni, le belle arti e i monumenti” e si fa consegnare i
quadri con la complicità, secondo l’accusa, di una giovane
funzionaria tedesca del Centro, frau Wiltrud Mersmann, che poco
dopo sarebbe diventata sua moglie. I beni raggiungono in treno
la Jugoslavia e nel mese di luglio del ’49, attraverso una
fumosa Commissione per i risarcimenti dei danni di guerra,
vengono incamerati dal Museo nazionale di Belgrado. Solo che
quei 166 oggetti non appartengono alla Jugoslavia. Gli americani
se ne accorgono quasi subito e li chiedono indietro, ma invano.

   
Poi, per evitare tensioni diplomatiche con Belgrado e che il
mondo venisse a conoscenza della brutta figura, dopo qualche
anno desistono.

   
I quadri rimangono per decenni stoccati nel Museo nazionale
di Belgrado, chiuso per restauro per un lungo periodo durante il
quale le opere sono state inventariate e catalogate, ironia
della sorte, proprio con la collaborazione del Governo italiano
e di alcune Sovrintendenze. Che con le opere restaurate
organizzano delle mostre anche in Italia. Proprio da una di
queste prende le mosse l’inchiesta della procura di Bologna che
porterà i magistrati a chiedere, invano, la restituzione di otto
quadri di proprietà dello Stato italiano e, a loro avviso,
illegalmente detenuti a Belgrado. Succede infatti che nel 2014,
compulsando il web in una ricerca qualunque, un appuntato del
Nucleo Tutela patrimonio culturale di Firenze si imbatte in un
quadro esposto in una rassegna allestita a Bari e a Bologna
dieci anni prima, tra il 2004 e il 2005. Quel quadro però non
doveva trovarsi lì: acquistato da Goering, il braccio destro di
Hitler, durante la Seconda guerra mondiale, era stato
illecitamente esportato in Germania. Le indagini successive
aprono il vaso di Pandora del Museo di Belgrado, dove i
Carabinieri scoprono altri sette dipinti che avevano fatto lo
stesso percorso: un Ritratto della Regina Cristina di Danimarca,
di pittore lombardo del XVI secolo, con suggestioni da Tiziano;
una Madonna con Bambino e donatore (1565 circa) attribuita a
Jacopo Tintoretto; due quadri della scuola di Vittore Carpaccio
raffiguranti San Rocco e San Sebastiano (prima metà del XVI
secolo); una Adorazione del Bambino con Angeli e Santi (XV-XVI
secolo) di pittore lombardo; una Madonna con Bambino (1320-1324)
dell’ambito di Paolo Veneziano; una Madonna con Bambino, Santi,
Annunciazione, Crocifissione (XIV secolo) di Paolo di Giovanni
Fei e una Madonna con Bambino in trono (XIV secolo) di Spinello
Aretino. Tutti e otto – gli “otto prigionieri di guerra” –
facevano parte dei 166 oggetti portati via con il raggiro dal
Collecting point di Monaco di Baviera: i carabinieri e gli
inquirenti bolognesi hanno ricostruito tutto, ma nonostante due
rogatorie per eseguirne il sequestro e una sentenza di confisca,
le autorità serbe hanno risposto picche e i quadri si trovano
sempre al loro posto, a Belgrado.

   
La partita non può considerarsi chiusa e ora l’inchiesta
pubblicata in “Bottino di guerra” potrebbe contribuire a
rivitalizzare l’iniziativa giudiziaria. Una delle curatrici del
Museo serbo ha infatti dichiarato che, nel luglio del 1949,
dalla Commissione per i risarcimenti di guerra furono acquisiti
56 dipinti ed icone, di cui 46 confluirono nella raccolta d’arte
straniera. Incrociando i risultati delle indagini dei
Carabinieri, l’analisi di documenti americani del dopoguerra da
poco desecretati, quelli degli archivi federali tedeschi, i
cataloghi di mostre e musei, e le informazioni raccolte sul
posto, a Belgrado, Romanin e Sinapi hanno scoperto non solo che
quasi tutti i quadri in questione sono tra quelli portati via
con l’inganno da Mimara, ma che 19 fanno ora parte della
collezione italiana del Museo: oltre agli “otto prigionieri”, la
cui storia è nota, ce ne sono altri 11 che potrebbero
appartenere al patrimonio dello Stato italiano.

   

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