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Usa, l’autogol della cultura woke: il piccolo Holden Armenta accusato di razzismo alla partita di football dei Kansas City chiefs, ma è un nativo americano

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NEW YORK – La cultura “woke” è finita sott’accusa e la vittima è un piccolo tifoso di football americano. Un giornalista sportivo, in difesa dei diritti civili delle minoranze, aveva attaccato pubblicamente un giovane fan dei Kansas City Chiefs, la squadra campione della Nfl, per essersi presentato allo stadio con il viso colorato di nero e aver indossato un copricapo indiano. Secondo il reporter il bambino, Holden Armenta, era stato stato due volte razzista: verso gli afroamericani e verso i nativi. Ma il tifoso, come è emerso in seguito, è discendente di nativi americani e il viso non era stato colorato di nero per imitare gli afroamericani.

Per ore Carron Phillips, reporter afroamericano del New York Daily News, candidato in passato al Pulitzer, l’Oscar americano del giornalismo, aveva preso di mira il piccolo tifoso, aveva attaccato il “razzismo dilagante” nel Paese e inveito contro l’ondata conservatrice che vuole togliere dalle scuole lo studio della storia dello schiavismo. Nel suo commento, Phillips aveva mostrando la foto del bambino allo stadio per la partita Las Vegas Raiders-Kansas City Chiefs: Holden aveva indosso la maglia rossa della sua squadra, in testa un multicolorato copricapo indiano e il viso in apparenza tinto tutto di nero. In un video, seduto in prima fila nella tribuna dietro la panchina dei suoi idoli, il giovane tifoso si era unito agli altri spettatori nel salutare la squadra con il gesto del “Tomahawk chop”, che consiste nel portare avanti e indietro il braccio destro, con il palmo della mano aperto a imitare il colpo d’ascia usato anticamente dai pellerossa. Questo modo di celebrare la squadra è di moda tra i tifosi dei Florida State Seminoles di football, gli Atlanta Braves di baseball e i Chiefs, oltre alla squadra inglese di rugby degli Exeter Chiefs. Il gesto, però, è stato oggetto di controversie, perché considerato caricaturale dei nativi americani. Tre anni fa i Kansas City hanno vietato ai propri tifosi di indossare copricapo indiani, ma la partita a cui aveva preso parte Holden era a Las Vegas, per cui la restrizione imposta dai Chiefs non valeva.

Phillips ha accusato il bambino di essere stato doppiamente razzista, pubblicando l’immagine del profilo del bambino, con il volto colorato di nero e il copricapo da pellerossa. “Ha trovato il modo – ha scritto sul suo blog – di odiare allo stesso tempo la gente gente nera e i nativi americani”. A chi gli ha fatto notare che il bambino avesse l’altra metà del viso colorata di rosso, a riprodurre i due colori dei Chiefs, Phillips ha risposto seccato: “Siete come quelli che odiano i messicani e poi indossano il sombrero”. E aggiunto: “State dando alle future generazioni il modo di ricreare un razzismo migliore di quello precedente”. L’immagine del piccolo vestito da capo tribù è diventata virale ed è finita su tutti i media americani. Il commento ha generato reazioni indignate verso il reporter. Il proprietario di X, Elon Musk, si è unito al coro, rilanciando la precisazione sulla scelta dei colori che aveva smontato la ricostruzione di Phillips. La piattaforma social ha pubblicato una nota a commento della foto incriminata, per spiegare come fosse ingannevole: il bambino aveva sì il volto colorato di nero, ma solo a metà. L’altra era rossa. Come se non fosse bastato, a smontare la crociata del giornalista è stato l’intervento della madre del bambino, Shannon Armenta, che ha scritto su Facebook: “Lui è un nativo americano, fermatevi subito”. Il nonno di Holden ha fatto parte del Santa Ynez Band, un ufficio di rappresentanza della tribù di Chumash, nativi americani di Santa Barbara, California. “L’accusa di razzismo è ridicola – ha aggiunto la donna – E’ stata pubblicata solo una foto di profilo per creare divisioni”. Il giornalista non ha fatto ulteriori commenti. Il giovane Holden, però, ha vissuto la sua giornata di riscatto: è stato votato come miglior costume da tifoso dei Chiefs. Per lui, alla fine della partita vinta da Kansas per 31-17, foto celebrativa con le cheerleaders.

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“Israele unico Paese che detiene i minori come prigionieri di guerra”, il post e poi le scuse di Gigi Hadid

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NEW YORK – La modella Gigi Hadid si è scusata pubblicamente per aver definito su Instagram Israele “l’unico Paese al mondo che tiene i bambini in cella come prigionieri di guerra”. Il post era accompagnato da due foto, una del 2015 e l’altra di quest’anno, di un ragazzo palestinese arrestato quando aveva 13 anni.

La modella aveva accusato Israele di “sequestro, stupro, umiliazione, torture e omicidio di palestinesi”. Il messaggio, pubblicato sul suo account seguito da quasi ottanta milioni di follower, aveva scatenato proteste e indignazione, anche perché il ragazzino della foto era Ahmed Amanasra, arrestato nel 2015 per aver accoltellato due ebrei a Gerusalemme. I fan della modella avevano risposto al suo post, pubblicando il video ripreso dalle telecamere di sicurezza in cui Amanastra, con in mano un lungo pugnale, rincorreva le persone per strade, insieme al cugino. Nel raid avevano accoltellato gravemente un ragazzino della stessa età di Ahmed, mentre usciva da un negozio di dolci, e uno di ventuno anni.

Un follower ha definito Hadid una “terrorista dei social media”. Per un altro, “l’intera famiglia Hadid aveva le mani sporche di sangue”. Dopo essersi resa conto dell’errore, Hadid, 28 anni, una delle top model più pagate al mondo, aveva cancellato tutto. Ma, come accade sempre sulla rete, era tardi. Il post era già stato fotografato dagli utenti e la storia era diventata virale.

Il caso è scoppiato pochi giorni dopo quello che aveva travolto il padre, Mohamed Hadid, palestinese, che in un post aveva definito “nazisti” gli israeliani. La modella ha spiegato di aver commesso un “errore” e di non aver verificato le notizie. “È importante per me – ha scritto ai suoi follower in un post in cui, al momento, i commenti sono bloccati – condividere storie vere riguardo ciò che i palestinesi stanno soffrendo, ma questa settimana ho condiviso qualcosa che non avevo verificato o pensato in modo approfondito prima di rilanciare”.

Hadid ha spiegato che voleva “mostrare i modi in cui la legge internazionale viene violata dal governo israeliano” e denunciare il fatto che un bambino palestinese arrestato dalle Forze di difesa israeliane sarebbe stato trattato in modo diverso rispetto a un bambino israeliano arrestato per lo stesso motivo. “Sfortunatamente – ha aggiunto – ho usato l’esempio sbagliato e sono rammaricata”. La modella, attuale volto delle campagne di Versace, ha condannato le violenze verso tutte le persone.

“A volere libertà e trattamento umano per i palestinesi – ha spiegato – e a volere la sicurezza per il popolo ebraico possono essere la stessa persona, incluso me stessa”. Hadid non ha fatto riferimento diretto al massacro portato avanti da Hamas il 7 ottobre, quando sono stati uccisi più di 1200 israeliani e più di 240 presi in ostaggio, ma ha condannato l’uccisione di civili anche ebrei e chiesto l’immediato rilascio degli ostaggi in mano ad Hamas. “Sono un essere umano – ha ribadito – è commetto errori, ma sono anche quella che risponde di quegli errori”.

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Il secolo di Kissinger, l’uomo che non si è mai fermato

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NEW YORK – Ancora nel luglio scorso, a cent’anni compiuti, Henry Kissinger era andato a Pechino per essere ricevuto in pompa magna dal presidente cinese Xi Jinping. Un po’ per ricordare i tempi andati del principale successo in politica estera dell’amministrazione Nixon, e molto per segnalare a Washington che l’assenza di dialogo stava spingendo la Repubblica popolare nella direzione opposta a quella della Guerra Fredda, ossia all’abbraccio con Putin, vanificando la separazione dei due principali avversari di Washington che a suo tempo il segretario di Stato nato in Germania era riuscito ad orchestrare.

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Unesco, la Carta di Napoli per difendere il Patrimonio: “Società civile e popolazioni indigene al centro”

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Si chiama Lo spirito di Napoli ed è l’appello ad agire (“Call for action”) rivolto ai Paesi membri dell’Unesco “per una più efficace tutela del patrimonio” agendo in particolare contro i cambiamenti climatici, che impattano sulla conservazione dei siti, e contro il turismo di massa che potrebbe far perdere l’identità dei territori. È questo il documento programmatico conclusivo della Conferenza dell’agenzia delle Nazioni Unite per la cultura che si è chiusa oggi a Palazzo Reale a Napoli.
Nella “carta” si fa appello a tutti gli Stati Unesco affinché portino avanti “una visione prospettica” mettendo in atto politiche e strategie pubbliche volte a salvaguardare il patrimonio culturale, sia materiale che immateriale, e anche naturale attraverso approcci olistici. “Dobbiamo ripensare l’approccio alla protezione di ogni tipo di patrimonio culturale – ha detto Audrey Azoulay, direttrice generale Unesco – integrando la prospettiva e ponendo la società civile e le popolazioni indigene al centro delle nostre azioni”.
La carta chiede ai Paesi Unesco di “promuovere risposte innovative” per rispondere alle sfide che i siti devono affrontare e per garantire il benessere e il sostentamento sostenibile delle comunità locali e delle popolazioni indigene che vivono all’interno e intorno a luoghi che sono patrimonio culturale. Una “carta” che, ha sottolineato il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, “è ricca di spunti operativi per la tutela del patrimonio. Questa Conferenza è stata opportunità di confronto, di scambio di esperienze in un momento segnato da guerre e crisi internazionali dimostrando che la cultura è terra di dialogo fra i popoli”.

Palazzo Reale, Napoli

Palazzo Reale, Napoli
 

Soddisfatto anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani, intervenuto alla sessione conclusiva: “Abbiamo scelto Napoli come sede di questa tre giorni Unesco perché è una città meravigliosa. Anche durante il prossimo anno, quando l’Italia avrà la guida del G7, faremo vedere le nostre bellezze: perciò abbiamo deciso di tenere a Capri l’incontro dei ministri degli Esteri. L’Italia è un gigante mondiale della cultura per il patrimonio che conserva, le bellezze che ha, per la storia millenaria, ma anche per tutto quello che sta facendo in giro per il mondo per tutelare il patrimonio artistico”.
Nella call for action si invitano i Paesi Unesco anche a garantire l’inclusione sociale ed economica attraverso strategie e iniziative di conservazione e salvaguardia del patrimonio “che integrino la prospettiva di genere e promuovano il dialogo e la trasmissione intergenerazionale coinvolgendo i giovani”; di rafforzare ed espandere i partenariati per aumentare le capacità a livello locale, nazionale e regionale “di sfruttare la cultura come vettore di inclusione sociale, crescita economica, occupazione e forza di trasformazione per lo sviluppo sostenibile, la resilienza e la costruzione della pace”; sviluppare e attuare politiche turistiche “sostenibili che diano priorità alla salvaguardia del patrimonio”, fornendo soluzioni intelligenti per affrontare le sfide dell’eccesso di turismo.

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Paura a Gerusalemme, tre morti in un attentato alla fermata del bus. Uccisi i due terroristi. Ben Gvir: “Erano membri di Hamas”

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GERUSALEMME – La paura è tornata nelle strade di una Gerusalemme fino ad oggi risparmiata dall’escalation di violenza seguita agli attacchi del 7 ottobre in Israele. Due uomini armati – palestinesi di Gerusalemme Est e “affiliati ad Hamas” secondo le prime dichiarazioni del ministro degli Interni Ben Gvir – hanno aperto il fuoco a una fermata del treno all’ingresso della città, nella zona Ovest, nei pressi del boulevard Weizmann. Alcune immagini mostrano la loro auto avvicinarsi al luogo dell’attacco, poi si sentono i colpi: sono morte almeno tre persone, otto i feriti. Il bilancio non include i due attentatori, che sono stati uccisi, secondo quanto confermato dalla polizia al quotidiano Haaretz.

L’intera città è sorvolata da elicotteri, l’area colpita è stata circondata ed è piena di ambulanze. Sono giorni di particolare tensione qui, con il dispositivo di sicurezza, sempre molto alto, portato ai livelli di massima guardia. Molti dei prigionieri usciti in questi giorni dalle prigioni israeliane sono infatti tornati nelle loro case nella parte araba della città, che dunque è sottoposta a una sorveglianza ancora più stretta del solito. Agli ex detenuti e alle famiglie è stato imposto di non festeggiare e di non parlare con i giornalisti: ancora una volta, un segno di tensione.

(afp)

L’attacco è il primo nella città dal 7 ottobre, relativamente tranquilla in queste settimane. Al di fuori della zona di Gaza gli scontri sono rimasti limitati alla Cisgiordania, dove coloni israeliani hanno ripetutamente attaccato villaggi palestinesi, creando uno stato di tensione permanente che preoccupa la comunità internazionale, come dimostrano gli interventi sulla questione di Joe Biden e Ursula von der Leyen. Nulla era accaduto a Gerusalemme: triste, tristissima, deserta, senza luci di Natale, senza visitatori ma fino a stamattina relativamente tranquilla.

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Risorge la guglia di Notre-Dame: torna a svettare la freccia della cattedrale di Parigi

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PARIGI – Risorge in cima a Notre-Dame la guglia progettata dall’architetto Viollet-Le-Duc. Ricostruita come l’originale, per il momento è ancora nascosta dalle impalcature. Ma da qualche ora i parigini che guardano la cattedrale vedono di nuovo la sua “freccia” che svetta nel cielo fino a 96 metri di altezza. Subito dopo l’incendio di Notre-Dame nell’aprile 2019, con le spettacolari e terrificanti immagini della guglia che crollava, divorata dalle fiamme, c’era stato un dibattito su un eventuale «gesto contemporaneo», come aveva detto Emmanuel Macron, da inserire nella ricostruzione.

Il britannico Norman Foster aveva immaginato un gioco di trasparenze con un pinnacolo tutto in vetro, mentre Ian Ritchie, ideatore di The Spire, inaugurato nel 2003 a Dublino, proponeva una freccia in cristallo rifrangente sottile che rifletteva il cielo. Uno dei progetti di ricostruzione più eccentrici era stato presentato da Paul Godart e Pierre Roussel : una nuova guglia dorata con un tetto in vetro e acciaio. Tra i difensori di una ricostruzione all’antica c’era anche Jean Nouvel, l’archistar che ha disegnato edifici avveniristici come il museo del Quai-Branly, la Filarmonica di Parigi o il Louvre di Abu Dhabi. Nouvel si era schierato per una copia identitca all’originale. Molti architetti avevano invece ricordato che la guglia crollata era stata ricostruita alla fine dell’Ottocento dopo che quella precedente era stata distrutta durante la Rivoluzione. E che lo stesso Viollet-le-Duc aveva in qualche modo scioccato all’epoca issando un pinnacolo di legno e piombo dai contorni troppo moderni rispetto allo stile gotico della cattedrale. “Non bisognerebbe fermarsi al ricordo” aveva commentato l’architetto francese Jean-Michel Wilmotte.

Alla fine, ha vinto chi voleva un restauro rispettoso della tradizione e fedele alla storia della cattedrale. E così è stato deciso di riprodurre semplicemente la guglia com’è stata disegnata dal Eugène Viollet-le-Duc nel 1859, in legno e piombo. Nei prossimi mesi la nuova guglia rimarrà circondata dall’impalcatura utilizzata per erigere la struttura che sarà anche utilizzata per l’installazione del tetto e degli ornamenti in piombo. La costruzione delle strutture della navata centrale e del coro della cattedrale, crollate nell’incendio, sarà completata all’inizio del 2024, quando potrà iniziare anche l’installazione della copertura. L’immenso cantiere di ricostruzione sarà terminato tra un anno: idealmente per l’8 dicembre, Festa dell’Immacolata Concezione.


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La mossa della Bulgaria: chiudere i cieli al volo di Lavrov per consentire all’americano Blinken di tenere una colazione con gli altri ministri a Skopje senza il russo

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Comincia con un volo a ostacoli la partecipazione del ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, al vertice Osce di Skopje, in Macedonia. Un vertice boicottato da Kiev insieme ai paesi baltici e alla Polonia proprio per la presenza di Mosca al tavolo. “La parte bulgara ha rifiutato il sorvolo dell’aereo del ministro degli Esteri russo se a bordo era presente la portavoce ufficiale del dipartimento diplomatico russo, Maria Zakharova”, ha spiegato l’agenzia Tass.

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Morte Kissinger, con lui l’America scoprì la Cina

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LONDRA – L’architetto dell’apertura alla Cina di Mao. L’autore della distensione con Mosca. Il premio Nobel per la pace per la fine del conflitto nel Vietnam. “Un gigante della diplomazia” è il titolo più usato dai media di tutto il mondo per riassumere Henry Kissinger, morto stamane a 100 anni di età nella sua casa del Connecticut, il piccolo stato del New England da dove i personaggi dell’élite intellettuale, finanziaria e industriale Usa fanno i pendolari con gli uffici di Manhattan.

Ma c’è anche chi lo chiama un criminale di guerra, chi gli rimprovera il ruolo o la tacita approvazione nel golpe di Pinochet in Cile, chi lo associa al Watergate che portò Nixon alle dimissioni. Di certo, se il Novecento è stato “il secolo breve” secondo la nota definizione dello storico Eric Hobsbawm, quello dell’ex-segretario di Stato e consigliere per la sicurezza della Casa Bianca è stato un secolo lungo, un’esistenza “larger than life” come si dice in inglese: una vita fuori dall’ordinario, unica, eccezionale, la sua parola ascoltata fino all’ultimo come un concentrato di acume e saggezza da leader politici, giornalisti, politologi. “Una perdita enorme, un vecchio amico del popolo cinese” è il primo omaggio che gli arriva dalla televisione di Pechino.

Nato in Baviera il 27 maggio 1923 in una tipica famiglia ebraica piccolo-borghese, Heinz Alfred Kissinger lascia la Germania nel 1938 in seguito alle persecuzioni antisemite dei nazisti per trasferirsi con i genitori a New York. Brillante a scuola, allo scoppio della Seconda guerra mondiale ottiene la cittadinanza americana e si arruola nell’esercito: viene mandato al fronte nel suo Paese di origine, dove si mette in mostra come interprete per la sua conoscenza del tedesco. Al ritorno in patria completa gli studi laureandosi ad Harvard, dove ottiene ben presto una cattedra in affari internazionali. Nel frattempo conosce Nelson Rockefeller, il banchiere miliardario gli offre un posto nella sua fondazione e gli presenta il presidente Eisenhower: l’inizio di una carriera politica che lo porta a collaborare sia con i repubblicani come l’ex-generale comandante in capo degli Alleati nella Seconda guerra mondiale che con i democratici Kennedy e Johnson.

Ma è quando Richard Nixon vince le presidenziali del 1968 che Kissinger entra alla Casa Bianca come consigliere per la sicurezza nazionale. Un ruolo chiave, dal quale passa poi a quello di segretario di stato, la designazione del ministro degli Esteri negli Stati Uniti, posti che gli permettono di determinare una triplice svolta di peso storico negli affari internazionali. “Nell’era delle armi nucleari non può esserci pace senza equilibrio di forze” è la formula che guida il suo sforzo diplomatico, un negoziato permanente per evitare l’apocalisse atomica fra le due superpotenze.

Pioniere della distensione con l’Unione Sovietica, Kissinger porta avanti le trattative per la riduzione degli arsenali strategici denominate Salt 1 e Salt 2, migliorando le relazioni fra l’America di Nixon e l’Urss di Breznev.

Contemporaneamente, intraprende due viaggi segreti in Cina per aprire i rapporti fra Washington e Pechino: incontra Mao Tse Tung e il premier cinese Ciu En Lai, prepara il terreno alla storica visita del presidente Nixon in Cina. Anche questo un passo gigantesco, una mossa da grande scacchista, che divide i due Paesi guida del mondo comunista, Urss e Cina, permettendo agli Usa di giocare contemporaneamente su due tavoli e di trarre vantaggi da entrambi. Anche economici: la Coca-Cola si prende la Cina, la Pepsi-Cola si prende la Russia, e l’America allunga il suo soft power sul mondo intero. Sorridente e suadente, dotto e arguto, spregiudicato e curioso, Kissinger conquistava con la sua intelligenza quelli che erano stati fino ad allora i nemici giurati di Washington. Un presagio della globalizzazione, l’avvio di una trasformazione epocale che è tra i primi a intravedere.

La terza mossa è la fine della guerra in Vietnam, un progetto curato per anni, nella consapevolezza che non poteva continuare un conflitto creato dalla guerra fredda, impopolare nell’America in cui decine di migliaia di giovani sono chiamati sotto le armi dal servizio di leva (soltanto inseguito l’esercito americano è diventato professionista), contestato come un’interferenza neo-colonialista nelle piazze di mezzo mondo. Del resto era stata proprio l’emorragia di risorse umane e finanziarie del Vietnam a spingere il democratico Johnson a non ricandidarsi alla Casa Bianca nel ‘68, offrendo a Nixon l’occasione di una inaspettata rivincita dopo la sconfitta patita nelle presidenziali del 1960 contro John Kennedy. Kissinger tratta a Parigi con il Vietnam del Nord, ottiene nel 1973 il Nobel per la pace insieme alla sua controparte nordvietnamita Le Duc Tho, anche se la guerra continua per altri due anni e si conclude con la mesta, concitata fuga degli ultimi soldati e diplomatici americani, in elicottero, dal tetto dell’ambasciata di Saigon.

La guerra fredda, non ancora conclusa, lascia un’ombra sulla sua carriera straordinaria: Kissinger è accusato di sostegno al colpo di stato in Cile che nel ’73, lo stesso anno del Nobel per la pace per il Vietnam, porta al potere il generale Pinochet rovesciando il governo democraticamente eletto di Salvador Allende, ucciso dai golpisti nell’assalto al palazzo presidenziale. Tremila cileni muoiono nel putsch, molti di più vengono imprigionati, perseguitati e repressi in una lunga dittatura. Pur affermando sempre di essere stato estraneo al complotto, il segretario di Stato americano ne viene considerato corresponsabile.

È sicuramente estraneo al programma di intercettazioni e registrazioni illecite passato alla storia come lo scandalo Watergate, che nel ’74 porta Nixon alle dimissioni: ma il suo nome rimane comunque legato a quello di un presidente finito nel fango, nonostante i brillanti risultati dei suoi due mandati. Il loro rapporto non è sempre facile: Kissinger racconterà a Oriana Fallaci lo sconcerto provato quando Nixon gli chiede di inginocchiarsi al suo fianco a pregare, nello studio ovale della Casa Bianca. Ma per influire sulla politica americana e mondiale bisogna lavorare con l’uomo più potente della terra: “Ciò che mi interessa”, confessa sempre alla Fallaci, “è quello che si può fare con il potere”.

Resta alla Casa Bianca per la breve successione di Gerald Ford, poi, dopo la vittoria del democratico Jimmy Carter nel 1976, apre a New York una società di consulenze politiche, la Henry Kissinger & Associates, e con quella continua a intrattenere rapporti per altri quarantacinque anni con i potenti del mondo. “Uno dei più abili diplomatici americani”, così lo ricordano ora Tricia e Julia Nixon, le figlie del presidente, descrivendo la relazione fra il padre e Kissinger come “una partnership che ha prodotto una generazione di pace”. Aggiungono una nota più personale: “Henry Kissinger verrà ricordato a lungo per tutto quello che ha realizzato come diplomatico ma è il suo carattere che noi non dimenticheremo mai”. Anche il carattere, in effetti, ha lasciato il segno: la passione per il calcio e per le donne, come testimoniano fra l’altro le sue foto accanto alla principessa Diana, una curiosità insaziabile, l’amicizia con Gianni Agnelli e con la famiglia Rockefeller. Ancora a quasi un secolo di vita, continuava regolarmente a recarsi a Mosca per incontrare Vladimir Putin in colloqui riservati, a tu per tu, solo con un interprete, richiesti dal presidente russo: nessun altro americano ha incontrato Putin così tante volte, nessuno lo ha conosciuto così bene. Intervistato dalla Bbc nel 2022, Kissinger rammenta di averlo incontrato per la prima volta a metà degli anni Novanta, quando il futuro capo del Cremlino era soltanto il vice sindaco di San Pietroburgo: “Chiacchierammo in tedesco”, lingua che Putin aveva imparato in Germania est come agente del Kgb, “mi era sembrato intelligente, seppure animato da una visione quasi mistica della Russia”.

I suoi ultimi interventi sono proprio sulla guerra in Ucraina e sulle crescenti tensioni con la Cina: in ciascuno dei casi Kissinger ha continuato a predicare il dialogo, la ricerca di soluzioni non affidate alla forza, la necessità di coesistere anche quando interessi e sistemi politici divergono. Un pragmatismo che per i suoi critici era cinismo, per i suoi estimatori la consapevolezza che la pace è il valore più importante di tutti: una lezione che Heinz Henry Kissinger aveva imparato sulla propria pelle, da bambino, fuggendo dalla Germania di Hitler alla vigilia della guerra e dell’Olocausto.

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Usa, è morto a 100 anni Henry Kissinger. Il cordoglio dalla Cina al resto del mondo. Putin: “Lungimirante”

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Si è spento nella sua casa in Connecticut l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger che lo scorso maggio aveva spento 100 candeline. Autore della celebre frase “il potere è il massimo afrodisiaco”, l’eredità del machiavellico statista continuerà ad essere discussa.

Influente fino agli ultimi giorni, per l’ex quindicenne ebreo in fuga dall’Europa alla vigilia della Seconda guerra mondiale il mondo era un gigantesco puzzle in cui ogni pezzo giocava un ruolo importante e distinto verso un unico fine: gli Usa come superpotenza internazionale anche al prezzo di interventi di realpolitik sullo scacchiere mondiale giudicati da molti brutali ed illegittimi, come il bombardamento e l’invasione della Cambogia e il sostegno al colpo di Stato di Augusto Pinochet in Cile del 1973 che defenestrò Salvador Allende.

In queste ultime settimane, dallo scoppio della guerra a Gaza, Kissinger non è mai intervenuto pure essendo stato uno dei protagonisti del conflitto del Kippur che vide Israele vincitrice nel 1973. Tra i suoi ultimi impegni pubblici, un incontro nella residenza a Washington dell’ambasciatrice italiana Mariangela Zappia con la premier Giorgia Meloni lo scorso luglio.

Le reazioni alla scomparsa: dalla Cina al resto del mondo

Tra le prime condoglianze istituzionali ad arrivare ci sono state quelle della Cina inviate tramite un messaggio del leader Xi Jinping a Joe Biden. Anche Vladimir Putin ha espresso il suo cordoglio parlando di “un uomo di Stato saggio e lungimirante”, per il premier giapponese Fumio Kishida a Kissinger va il merito di aver contribuito “alla pace e alla stabilità” in Asia, mentre l’ex presidente Usa George Bush ha parlato della perdita “di una delle voci più affidabili nella politica estera”.

Per l’Italia Giorgia Meloni ha ricordato il loro incontro – è stata una delle ultime leader a visitarlo a Washington lo scorso luglio – definendolo un privilegio e ha salutato l’ex segretario di Stato Usa parlando di “un punto di riferimento della politica strategica e della diplomazia mondiale”.

Per il cancelliere tedesco Olaf Scholz “Kissinger ha plasmato la politica estera come pochi altri”, Emmanuel Macron lo ha definito un “gigante della storia” e David Cameron “un grande uomo di Stato”.

Condoglianze sono arrivate anche dal presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen.

Il più grande statista bismarkiano del XX secolo

Per il politologo Robert Kaplan, Kissinger è stato il più grande statista bismarckiano del Ventesimo secolo. Con un occhio attento anche sull’Italia, di cui Kissinger, amico intimo di Gianni Agnelli, apprezzava il ruolo nel Patto atlantico pur avendo il Partito comunista più potente d’Occidente.

In occasione del suo centesimo compleanno sul Washington Post, il figlio David, interrogandosi sulla eccezionale vitalità fisica e mentale di un uomo che ha seppellito ammiratori e detrattori a dispetto di una dieta a base di bratwurst e Wiener schnitzel, individuò la ricetta nell’inesauribile curiosità paterna per le sfide esistenziali del momento: dalla minaccia delle atomiche negli anni ’50 all’intelligenza artificiale su cui due anni fa scrisse il penultimo libro, ‘The age of Ai: and our human future’, a cui ha fatto seguito ‘Leadership: Six studies in world strategy’.

Da bambino, si diceva, era troppo timido per parlare in pubblico. Straniero nella nuova patria dopo la fuga dalla Germania nel 1938, Heinz divenne Henry e imparò a esprimersi in perfetto inglese conservando sempre l’accento tedesco. Si fece largo prima a Harvard, poi a Washington, fino a raggiungere, complice Nelson Rockefeller, il tetto del mondo al servizio di due presidenti: Richard Nixon e, dopo il Watergate, Gerald Ford.

Kissinger concentrò nelle sue mani ogni negoziato, rendendo superfluo il lavoro della rete diplomatica: dalla prima distensione verso l’Urss al disgelo con la Cina, culminato nel viaggio di Nixon a Pechino. Gli accordi di Parigi per il cessate il fuoco in Vietnam dopo quasi 60 mila morti Usa gli valsero un controverso premio Nobel per la Pace: due giurati si dimisero per protesta.

Kissinger fu di fatto un presidente ombra, anche se la scrivania dell’Ufficio ovale restò sempre per lui un miraggio impossibile per il fatto di non essere nato negli Usa. La sconfitta di Ford e l’elezione del democratico Jimmy Carter segnarono la fine della sua carriera pubblica, non dell’impegno in politica estera attraverso gruppi come la Trilaterale.

Dopo aver lasciato il governo nel 1977, Kissinger fondò il celebre studio di consulenza Kissinger Associates, attraverso la cui porta girevole passarono ministri e sottosegretari e i cui clienti erano governi mondiali grandi e piccoli. Ed è stato proprio il suo studio a dare la notizia della sua morte

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Dover distrugge il murale di Banksy dedicato all’Unione europea

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LONDRA – Valeva un milione di sterline. Ma oramai è giunta la sua fine. Stiamo parlando di una delle opere più note di Banksy, realizzata pochi mesi dopo la Brexit sancita dal referendum del 23 giugno 2016. Siamo a Dover e non a Bristol, la città natale dello street-artist più famoso e anche misterioso del mondo, che vanta numerosi murales di Banksy sparsi soprattutto in centro e nella zona riqualificata dei docks.

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